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2022-09-03 04:08:31 By : Ms. Rebecca Xue

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svolte L’incidente che mi ha salvato la vitaPier Paolo Giannubilo

immersioni Il giorno in cui il buio mi sorpreseMatteo Muzio

Avete già visto «Severance», la serie tv (scritta da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle) dove i dipendenti di una grande azienda vengono scissi in due da un microchip che divide l'impiegato dalla persona che esce e torna a casa? Ad un certo punto, uno dei protagonisti dice: «È vero, ci toglie potere sindacale, però chi non vorrebbe andare al lavoro scrollandosi di dosso i problemi di casa e viceversa?». Forse, in giorni di rientro come questi, vale la pena riflettere quanto lavoro ci portiamo a casa e quanta casa portiamo al lavoro. Siamo la redazione di Futura. Scriveteci: Davide (dacasati@rcs.it), Renato (rbenedetto@rcs.it), Andrea Federica (andreaf.decesco@gmail.com) e Roberta (rscorranese@rcs.it).

È il 21 agosto 2018 e sono su un Boeing della Turkish Airlines con due costole posteriori rotte. Da oltre due settimane sento fendenti elettrici alla schiena a ogni movimento, ho difficoltà respiratorie, insonnia, disidratazione, inappetenza. E il morale a pezzi. Il nostro aereo, decollato nove ore fa da Bangkok, sta atterrando all'Atatürk di Istanbul. Fra un paio d'ore, un altro volo della Turkish mi riporterà finalmente a Fiumicino. L'incidente è avvenuto nella giungla nei dintorni di Chiang Mai, solo cinque giorni dopo il nostro arrivo. Una caduta rovinosa su una pietra appuntita. Dopo le lastre, ho insistito per proseguire il percorso col gruppo di sconosciuti con cui viaggio nonostante i patimenti e il rischio di pneumotorace, pur di non rimanere solo come un cane in una stanzetta d'albergo nel remoto nord thailandese, disperso all'altro capo del pianeta. Presto però sono diventato una zavorra. Li rallentavo, gli ho fatto saltare delle tappe, si sono accesi dei diverbi e sono stato cordialmente invitato a sganciarmi, raggiungere Bangkok coi miei mezzi e sbrigarmela fino alla data del rientro. Ho trovato ospitalità presso un mio concittadino di Campobasso di soprannome Cipputi, che non vedevo né sentivo dai tempi del ginnasio, negli anni '80, e che si è rifatto una vita a Bangkok. L'ho contattato con un disperato SOS su Facebook, la moglie thai mi ha recuperato in una stazione ferroviaria e lui mi ha accudito per quindici giorni a botte di Xanax e antidolorifici e lavandomi con un tubo di gomma in cortile. Con Susanna ci siamo lasciati due anni fa: rapporti chiusi, ma non abbiamo mai smesso di volerci. Mentre bivaccavo madido di sudore sul divano di Cipputi h24, mi è arrivato un suo messaggio allucinante: era in Francia, e la mattina del 14 era scampata per una manciata di minuti al crollo del ponte Morandi . Aveva avuto un brutto presentimento, dopo quel trauma, e voleva sapere come stavo. Le ho raccontato tutto, ci siamo commossi, e stanotte, da Nizza, sta seguendo il mio mesto nostos mediante un'app di tracking dei voli in tempo reale. La compagnia assicurativa mi ha trasferito in business. Anche in quest'ultimo tratto del viaggio sono dunque tagliato fuori dal gruppo, ma lo preferisco: con alcuni di loro non voglio più avere niente a che fare. Atterriamo. Mentre tutti scendono, io e altri due passeggeri non deambulanti - una settantenne islamica velata di nero dalle occhiaie spaventose e uno spilungone tedesco della stessa età - veniamo dirottati sulle nostre tre carrozzine in un punto dell'hub dove verranno a prelevarci per condurci ai nostri gate. Il tedesco comincia subito ad agitarsi. Strepita in inglese che ora lui e io perderemo il volo. Che all'Atatürk lo hanno abbandonato già altre due volte come un ferro vecchio lì dove ci stanno portando, e per ben tre ore… «Ho dovuto rifare il biglietto!». Sul trenino, sostiene, caricano «solo i musulmani», gli stranieri no. Io non connetto tanto, cerco di placare il suo climax di furore col filo di voce di cui dispongo, gli prometto che si occuperanno anche di noi. «Vedrai», stronfia lui. «Ora vedrai». Dopo un quarto d'ora, arriva il mezzo e carica in effetti solo la donna turca, noi no, benché ci sia posto. L'autista ci fa cenno di attendere. Gli operatori, alle nostre proteste, restano impassibili come golem, non ci degnano di una risposta verbale o gestuale. Il tedesco dà di matto, attacca a imprecare, la sua voce belluina rimbomba nel corridoio semideserto. Dopo quaranta minuti di inutile attesa, pur di non perdere il volo per Roma, mi alzo e lo lascio anch'io, metto lo zainetto in spalla e mi avvio, dolorante come una lumaca col guscio calpestato, in cerca del mio gate. Susanna, online, ha la piena visuale interna dell'immenso hub e mi orienta come con un joystick. Riesco ad arrivare mentre le procedure d'imbarco stanno terminando. «Dov'eri finito?» mi accoglie uno del gruppo col tono insolente che non mi è nuovo. 2022. Io e Susanna, da quell'agosto, stiamo di nuovo insieme. Non so se sarebbe successo anche senza le mie costole rotte e il ponte Morandi, ma tant'è: è così che è andata. Nell'inverno 2019-20 sono tornato in Thailandia con lei. Pier Paolo Giannubilo è in libreria con «Incendio sul mare» (Rizzoli)

Illustrazione di Lucia de Marco

Per capire com'è fatto l'Appennino ligure, la stagione migliore è l'inverno. Quando l'aria punge il naso, ci sono pochissime auto lungo le strade carrozzabili, costruite in modo frettoloso nel corso degli anni Settanta, di fatto per far fuggire in modo più agevole gli ultimi residenti in età lavorativa e per far arrivare alcuni villeggianti nelle seconde case. Quando il clima è così, le montagne appaiono spoglie e sotto la coltre di alberi si vede un fitto reticolo di sentieri che fa cadere l'illusione estiva di un territorio mai toccato dalla mano dell'uomo. Tante vie tracciate nei secoli che venivano percorse da viandanti, mercanti e semplici contadini che andavano a vendere i loro prodotti nei più vicini centri urbani. La Valbrevenna, comune dove ho passato lunghe estati da bambino e da adolescente, è particolarmente ricca di reticoli di questo genere, che danno idea di quanto profondi dovessero essere certi spazi, quando a percorrerli era la sola forza delle gambe. Per la persona che ero allora, un adolescente che viveva larga parte dell'anno in una città, i rapporti umani erano cosa difficili a farsi, specie con l'altro sesso. Vedevo quindi quelle montagne non troppo alte e fortemente antropizzate come un rifugio dello spirito tra una lettura e l'altra. Incarnavano quella totale alterità rinfrancante, dove chi - come succedeva a me - faticava a confrontarsi con le mille maschere della commedia umana si trovava davanti uno scenario meraviglioso, che sapeva anche di verità. Perché erano indubbiamente reali, quelle tracce umane che si incontravano nelle mie lunghe camminate: piccole cappelle devozionali, cascine diroccate, ponticelli in pietra che superavano piccoli torrenti. A volte c'erano anche piccole soddisfazioni come una piccola fragola matura o una mora di rovo. Più raramente, la gioia di avvistare un'animale raro come un istrice o una volpe rossa. Certo a volte non si poteva far a meno di notare come l'incuria ormai pluridecennale avesse eroso quell'opera stratificata. Alberi caduti sul sentiero, tratti di sentiero crollati che richiedevano improvvisate arrampicate sulle pendici spesso piene di rovi ed erbacce, tra cui le temute ortiche, ottime per preparare decotti e pasta fresca, ma terrificanti per il prurito che provocavano nel gitante improvvisato come spesso ero io. A volte semplicemente uscivo di casa, accompagnato da un solo paio di snickers e uno zainetto con una bottiglietta d'acqua, unici compagni in un percorso che volevo fare solo io. Un giorno però, ho esagerato nel seguire un percorso che con ogni evidenza era stato devastato dalle numerose alluvioni che a partire dagli anni Novanta capitavano d'autunno, lasciando profonde tracce in quelli che fino a pochi anni prima erano boschi di castagni che davano molto frutto. La sfrontatezza dei miei primi vent'anni fece però sì che ignorassi quella che era l'evidenza: meglio tornare indietro. Nonostante i graffi alle caviglie e il sole che lentamente scompariva, volevo raggiungere il paese di Tonno, antico villaggio celtico che si trova su un piccolo altipiano. A un certo punto, però, è arrivato il buio. Se me lo avessero raccontato, non ci avrei creduto. Un giovane uomo istruito, razionale e padrone della tecnologia e del proprio mondo si ritrovava senza la possibilità di tornare a casa nelle prossime ore o di trovare riparo in un locale pubblico. Mi trovavo a tu per tu con la natura, con i versi degli animali che man mano che il buio calava assumevano un suono sempre più sinistro alle mie orecchie. Una sensazione ancestrale. La stessa che provavano i primi sapiens durante le ultime fasi dell'era glaciale in Europa, col terrore di non sopravvivere. Nel mio caso, il clima estivo aiutava molto, nonostante quella non fosse un'annata particolarmente torrida e non avessi con me un felpa con cui coprirmi. Mi prese un'angoscia incontrollabile, mentre cercavo di guidare i soccorritori lungo quei reticoli di sentieri per ritrovarmi. Dopo qualche ora, lunghissima, finalmente la luce di una torcia. La mia intuizione di andare sulle pendici del massiccio del monte Antola nella speranza di trovare un nuovo sentiero percorribile si rivelò corretta, ma non feci a tempo a trovarlo. Il ritorno a casa, una volta confortati i genitori, mi ha fatto pensare a un rapporto più equo con la Natura. Che non può essere soltanto il luogo dove ci si rinfranca dopo un lungo periodo in mezzo al cemento. Ci sono degli equilibri che vanno rispettati, e serve un po' di tracotanza in meno per attraversarla: consapevoli che sarà lì anche dopo che noi non ci saremo, per evitare di far crollare l'immagine idilliaca che avevamo nella mente, perdendo lo spirito di «soggiogamento» dell'ambiente che ci portiamo dentro da millenni e acquisendo una nuova consapevolezza di essere sempre i discendenti di quelle persone che, diecimila anni fa, dovevano giocarsi la sopravvivenza giorno per giorno.